di Andrea Monti – Nova IlSole24Ore del 29 ottobre 2009
Migliorare l’efficienza dello Stato grazie alla rete è un tema del quale si discute dagli albori della diffusione dell’internet in Italia. Le esperienze delle reti civiche di Milano e Roma, ma anche quelle di altre città italiane, hanno dimostrato le potenzialità offerte dall’uso intelligente di uno strumento estremamenteflessibile e potente.
Benché, tuttavia, siano stati fatti molti sforzi nel corso degli anni, una pubblica amministrazione realmente digitale è ancora un sogno di là dal diventare concreto. Il mondo della giustizia, tanto per fare un esempio, procede a macchia di leopardo con tribunali che attivano sperimentazioni per semplificare le procedure (penso a Milano,ma anche a Roma dove si sta discutendo di un interessante progetto per utilizzare la posta elettronica certificata nello scambio degli atti) e altri palazzi di giustizia dove, invece, file e burocrazia la fanno da padrona. La telemedicina è praticamente all’anno zero, specie se si considera l’impatto potenziale che un sistema come GoogleHealth potrebbe avere sulla gestione elettronica della sanità.
L’interazione di cittadini e imprese con la pubblica amministrazione, poi, è ancora fortemente rallentata dalla necessità di usare documenti cartacei e da una scarsa attitudine delle persone – sia nel settore pubblico, sia in quello privato – nell’utilizzo dell’Ict. Basta dunque accentuare la disponibilità (a basso costo) di risorse fisiche come banda passante, datacenter e via discorrendo, per trasformare l’Italia in un Paese più efficiente. Sì, ma non solo.
In realtà la disponibilità attuale di risorse di comunicazione è ampiamente “capiente” per consentire un utilizzo efficace della rete per la stragrande maggioranza delle interazioni con lo Stato. Anzi, probabilmente basterebbe anche una connettività minima, come quella di un vecchio modema 56K. E anche le norme (pur con qualche integrazione, come nel caso dell’attribuzione di valore legale pieno alle transazioni online) già consentirebbero il grande salto. Ma se questo non accade, è per la sopravvivenza di un problema culturale atavico sia nei cittadini sia nelle pubbliche amministrazioni. I primi faticano a liberarsi da una endemica – e spesso fondata– diffidenza nei confronti dei computer. Le seconde – o meglio, alcune loro componenti – digeriscono malvolentieri l’inevitabile “stretta”di controlli che l’informatizzazione provocherebbe, riconsegnando probabilmente alla Storia l’immagine di Renzo e dei suoi polli. In mezzo a questi due poli c’è infine il ruolo della pubblica amministrazione in rapporto all’innovazione tecnologica.
L’alternativa è secca. Si può decidere di subire il processo di rinnovamento privilegiando scelte eterodirette, oppure si può scegliere di condurre la rivoluzione, lavorando con il mondo dell’impresa per definire standard tecnologici aperti che consentano maggiori economie di esercizio e minori costi per i cittadini (basta pensare, ad esempio, all’uso di tecnologie basate su modelli “aperti” di gestione della proprietà intellettuale).
È quello che fecero gli Stati Uniti, circa quaranta anni fa, quando crearono un sistema di comunicazione fra computer libero da royalty e che ha cambiato non solo quel Paese, ma anche il mondo: il protollo Tcp/Ip, cioè l’internet.
Dimenticare l’esperienza statunitense per concentrarsi solo sulla banda passante significherebbe quasi sicuramente trovarsi circondati da enormi tubi – come scriveva già anni fa Giancarlo Livraghi – pieni di nulla.
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